Hybris

1- HYBRIS foto Annalisa Gonella

(2022)

di Flavia Mastrella, Antonio Rezza

con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli
e con la partecipazione straordinaria di Maria Grazia Sughi
(mai) scritto da Antonio Rezza
habitat Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
luci e tecnica Alice Mollica
macchinista Andrea Zanarini
organizzazione generale Marta Gagliardi Stefania Saltarelli
produzione RezzaMastrella, La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro di Sardegna
coproduzione Spoleto, Festival dei Due Mondi
ufficio stampa Chiara Crupi – Artinconnessione

Come si possono riempire le cose vuote? È possibile che il vuoto sia solo un punto di vista? La porta…perché solo così ci si allontana. Ognuno perde l’orientamento, la certezza di essere in un luogo, perde il suo regno così in terra e non in cielo. L’uomo fa il verso alla belva. Che lui stesso rappresenta. Senza rancore. La porta ha perso la stanza e il suo significato, apre sul nulla e chiude sul nulla.Divide quello che non c’è… intorno un ambiente asettico fatto di bagliori. L’essere è prigioniero del corpo, fascinato dall’onnipotenza della sua immagine trasforma il suo aspetto per raggiungere la bellezza immobile e silente che tanto gli è cara.

Le gabbie naturali imposte dal mondo legiferano della nascita, della crescita e della cultura, ma la morte è come al solito insabbiata; ai bambolotti queste cose sembrano inutili sofferenze, antiche volgarità. La porta attraversata dal corpo, che è di cervello e profondamente pigro, si trasforma in un portale nel vuoto; al bordo del precipizio si può immaginare un mondo alternativo ma il bambolotto si lascia abitare da chiunque, di ognuno prende un pezzo, uno spunto, sicuro e consapevole di dare una direzione sua alle cose. La spina dorsale si allunga e si anima: finalmente si divide. Aprire la porta sulle altrui incertezze, sull’ambiguità, sull’insicurezza dell’essere e la meschinità dello stare. Chiunque sta in un punto, detta legge in quel punto. Ci si conosce sotto i piedi, nulla può durare a lungo quando due persone si incontrano esattamente dove sono: e dove stanno non si vede bene perché ci sono i piedi sopra. I rapporti finiscono perché nascono sotto i calcagni, senza rispetto. Piccoli dittatori che fanno della posizione la loro roccaforte. Ma poi barcollano con una porta davanti gestita da un carnefice inesatto che stabilisce dove gli altri vivono. Non cambia molto essere un metro oltre o un metro prima, ma muta lo stato d’animo di chi sapeva dove era e adesso ignora dove andrà perché non sa da dove parte. Chi bussa sta dentro, chi bussa cerca disperatamente che qualcuno da fuori chieda “chi è?”. Bussiamo troppo spesso da fuori per tutelare le poche persone che vivono all’interno, si tratta di famiglie di due o tre elementi, piccoli centri di potere chiusi a chiave. Dovremmo imparare a bussare ogni volta che usciamo, perché fuori ci sono tutti, l’esterno è proprietà riservata, condominio esistenziale, casa aperta. L’educazione va sfoggiata in mezzo agli altri e non pretesa quando ci si spranga insieme al parentato. La famiglia la sera chiude fuori tutta l’umanità, che senso ha accogliere il diverso quando ogni notte ci barrichiamo dichiarando l’invalicabilità della nostra dimora? Infimi governanti delle pareti domestiche, come le bestie. L’uomo diventa circense, domatore della proprietà privata.

SPOLETO FESTIVAL DEI DUE MONDI

Oltre la soglia

Fuori dalla porta ci sono gli altri. Già, ma per quelli che stanno fuori dalla porta, o dietro altre porte, noi siamo gli altri. Oltre la siepe, oltre il confine, ci stanno i vicini, che ci mettono poco a diventare ingombranti, pericolosi, nemici. E pure noi, dentro, o fuori a bussare per entrare, siamo oltre un confine. La porta, la siepe, il limite, si moltiplicano al plurale: porte, siepi, confini, porti, caselli, varchi, muri, colline, montagne, catene montuose, fiumi, linee dell’orizzonte, sipari… E non è detto che dietro uno di quei passaggi ci sia necessariamente qualcuno. Se c’è qualcuno: come sarà? Uguale o diverso, amico o minaccioso, ingombrante, fastidioso?

Come sempre l’ultimo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, HỲBRIS, è ontologico-umoristico, delirante-realista, psicanalitico-lunare e lunatico. Rinchiuso in un rettangolo dai lati solo disegnati in terra e quindi sempre valicabili, suggerisce un ambiente frigorifero per la conservazione della specie, dotato di qualche confort per i periodi di lunga reclusione, aperto agli infiniti dell’abiezione e della risata, del paradosso e dell’accelerazione stratosferica e incontenibile, del tormentone e dello sguardo antropologico.

Porte, porte, tante possibili porte vediamo, rese da una sola porta col suo telaio, leggera e mobile, che il burattino crudele, il Petrolini artaudiano Rezza sposta nello spazio, figurando infiniti interni, dove ci chiudiamo, ci proteggiamo, ci consoliamo, ci barrichiamo, ci rassicuriamo, e altrettanti infiniti esterni, dove ci disseminiamo, dove moltiplichiamo la vita. «La porta ha perso la stanza e il suo significato, apre sul nulla e chiude sul nulla» leggiamo in uno scritto degli autori. La porta fa immaginare sempre altri mondi; e ogni tanto possiamo pure sbatterla in faccia a qualcuno.

Shakespeare fa dire agli artigiani sempliciotti del Sogno di una notte di mezza estate, intenti a preparare una scombinata opera teatrale per le nozze dei sovrani, che il muro si può rendere con un attore dipinto di bianco: aprirà due dita a significare il buco attraverso cui i due sfortunati amanti Piramo e Tisbe si parlano. Tutto il suo teatro è costituito di pochi luoghi, che acquistano senso grazie alle parole degli attori e alle relazioni spaziali.

Flavia Mastrella da sempre inventa ambienti morbidi, di stoffa, o di materiali più resistenti, come le edicolette di Anelante, offrendole come habitat per la vita scenica di Antonio Rezza. Lui di volta in volta asseconda quegli habitat o ci combatte contro, deformandosi nei buchi delle stoffe, agitandosi e correndo tra scivoli, avvolgendosi in tele per sdoppiarsi – da un lato, dall’altro – per rappresentare due figure in una o le due anime di una sola figura.
Cubismo espressionista, con tanto teatro della crudeltà, con vocine ingenue, perfide, con voci e vocione ciniche, sadiche, che ci rappresentano come siamo: brutti, sporchi (nonostante l’abuso di deodoranti e profumi), cattivi.
In HỲBRIS l’antropologia domina, nella scomposizione esilarante delle relazioni parentali, nello spaesamento delle visite amicali o di famiglia, dell’essere fuori o dello stare dentro, fino alla negazione della presenza, dicendo semplicemente: tu non hai varcato la porta e non ci sei. «Aprire la porta sulle altrui incertezze, sull’ambiguità, sull’insicurezza dell’essere e la meschinità dello stare. Chiunque sta in un punto, detta legge in quel punto» si legge ancora.

Rezza è circondato da tante presenze come non mai: un coro che spesso lo asseconda senza parole o con poche parole, rappresentando la tendenza, il bisogno di obbedire a un potere pre-potente. Rezza muove gli altri con le azioni e con le parole a cascata, mettendo a disagio i compagni di scena, catalogandoli, negandoli, in un grande luna park o parco giochi in cui lui, come un bambino terribile, un feroce infantile tiranno che rappresenta in nuce l’umanità, manipola ogni cosa, autorizzando o negando, stimolando o frenando, fino a far perdere la testa agli altri, ad accelerarli come in un comico film muto.

Ma le porte, lo sappiamo, non sono solo quelle che vediamo nelle nostre case, in palazzi, uffici, auto, luoghi di ritrovo o di assenza. Ci sono quelle della mente e altre che ci proiettano in dimensioni sconosciute, trasformandoci in ombre. Ci possono far precipitare in molti al di là che fanno paura, dai quali non sappiamo se potremo ritornare. Ci sarà forse anche una bara in scena o una gabbia o non sappiamo cos’altro: questo spettacolo – lungamente preparato e interrotto da uno sfratto dal luogo dove Rezza e Mastrella provavano tradizionalmente e poi da quella porta chiusa che è stata la pandemia – prevede nel momento in cui scrivo (inizio marzo) ancora un lungo processo di lavoro, prima del debutto a Spoleto.
Le creazioni di questi due figuri, insigniti del Leone d’oro della Biennale di Venezia, hanno una gestazione di anni: e poi esplodono come bombe devastanti, mine antiuomo, perché mettono in scena molte miserie della nostra specie, folle e tribale sotto lustrini ipermoderni. Con gli habitat di Flavia Mastrella, apparentemente semplici ma capaci di creare con un linguaggio visivo metaforico infinite possibilità, con la forza energica, ipercinetica e iperverbale di Antonio Rezza, disegnano mondi. Ci fanno ridere e ci trascinano in abissi dove lo smarrimento può essere molti- plicazione in caratteri ossessivi, fuori tempo, quotidianamente selvati- ci, come in quel saggio comicissimo di paleoantropologia umana che è Pitecus, può essere concentrazione egotica come in Io, delirio matema- tico come in 7-14-21-28, smarrimento esistenziale e psicologico come nell’uno spezzato di Fratto_X, può essere una corsa frenetica verso tra- guardi mai raggiungibili e sicuramente inutili come in Anelante. Può diventare mobilissimo balletto filmico come nei corti e nei lungometraggi, ultimo dei quali Samp, un killer contro le tradizioni in una Puglia dai colori accesi di videogioco, presentato alle Giornate degli autori di Venezia. Può essere provocazione con la cinepresa brandita come un’arma come nelle interviste di Troppolitani o di Milano, via Padova. Può diventare caleidoscopio di vari Io spezzati come nei libri, guidati da titoli come So(N)no, Credo in un solo oblio, Clamori al vento, La noia incarnita.

Oltre le porte che vedrete aprirsi e chiudersi su vari ambienti, tanti da indurre una vertigine, da mettere in moto la paura del cambiamento, da precipitare in una molteplicità che fa temere il dilagare del nulla, oltre le porte scorgiamo un sacrificio umano. È quello di tutti noi, in fondo borghesucci in cerca di rassicurazioni e distrazioni, e degli autori, l’artista modellatrice e la meravigliosa marionetta crudele, il poeta Pinocchio de-lirante, l’attore e performer insieme. Lo splendore del corpo in movimento, ostacolato ma mai addomesticato, si offre umilmente al nostro occhio belva, scatenando torrenti di risate che vogliono spesso dire che troppo ci riconosciamo in quell’agnello portato al mentale macello e sempre fingiamo di illuderci che non narri di noi ma di quegli altri che stanno là, oltre la soglia.

Massimo Marino