Bahamuth

(2006)

di Flavia Mastrella, Antonio Rezza

con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista Neilson Bispo Dos Santos

habitat: Flavia Mastrella
(mai) scritto da Antonio Rezza

assistente alla creazione: Massimo Camilli

liberamente associato a Manuale di zoologia fantastica di J.L. Borges e M. Guerrero

luci e tecnica: Daria Grispino

organizzazione generale: Stefania Saltarelli
foto di scena: Stefania Saltarelli

macchinista: Andrea Zanarini
sartoria: Silvana Ciofoli
metalli: CISALL

produzione:
REZZAMASTRELLA
TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello

ufficio stampa: Chiara Crupi

comunicazione web: Silvia Vecchini

Tre prologhi, un corpo

Un uomo steso fa le veci del tiranno.
E cede il passo all’atleta di Dio che volteggia sulle sbarre con le braccia della disperazione.
E poi un nano, più basso delle sue ambizioni, che usa lo scuro per fare, e la luce per dire.
Frattanto qualcuno cade dall’alto e si infila i piedi nella gola.
E quindi la realtà figurata delle vittime del povero consumo, connotate da assenza di astrazione, con il padrone unto dall’autorità del denaro.

Ma si affaccia Bahamuth, l’essere supremo, che dopo breve apparizione si sottrae al tempo e al giudizio.
Mentre la merce si mescola a corpi fatti a pezzi.
Pezzi di uomo ancora da nascere ma già immolati alla meschinità costituita.
E viaggiatori dell’anima con il corpo stanco, alloggiati come bestie a copulare nel grande albergo della carne mozza.
Intanto le sfilate della vanità su corpi zoppi e deceduti.
E un amico che parla senza voce e sente senza orecchie.
Ma il senso della vita si incontra solo all’infinito dove l’uomo fa la fine del capretto da sgozzare.
Brufoli e depressioni tristemente accomunati con le bibite a ghiacciare le parole nella gola.
Ma la corsa al vestire il corpo nudo e verme non da tregua all’uomo pellegrino, mentre le braccia del padrone, camuffate da proletariato, saltano al ritmo di una danza di classe.
E l’orologio segna sempre l’ora in cui un passerotto castrato, si affaccia e grida la sua costernazione sotto forma di cucù, per poi rientrare diligente nella trappola del tempo.
Editti a favore di chi non ha.
Urla squassanti di chi non è.
Urla come indiani, urla che non vengono capite perché non le si vuol capire.
Ma come Bahamuth sostiene il mondo, così le immagini si sovrappongono.
E il gran finale, con i personaggi a fare la figura degli sguatteri mentre l’autore che li muove è il gerarca dalla lingua biforcuta.
L’autore è il male dell’opera.

Dal giocattolo a Bahamuth

In una scatola appena accennata, un uomo trascorre l’agonia che lo porterà a una nuova vita fatta di rigurgiti tribali e storie passate, inquinate da problematiche contemporanee.
Il lavoro di ideazione dello spazio scenico è durato due anni.
Ho concepito la scatola e gli altri elementi scultorei per l’allestimento scenico di Bahamuth pensando a un grande giocattolo, sviluppando l’idea delle sculture in tasca* (una ricerca di microscultura che porto avanti dal 2004).

L’allestimento scenico è composto da pochi elementi – L’abito rosa, in stoffa e metallo, spersonalizza la materia uomo, dando vita a un personaggio antropomorfo che si muove sul palcoscenico col carisma di un essere mitologico incline a problematiche conservatrici.
Il volo è un elemento simile a un ventaglio ingigantito, azzurro e arancio di stoffa e legno: la scultura non riesce a decollare per motivi di spazio e diventa componente estetica, emblema della potenzialità ignorata… I quadri di scena mutanti frammentano il corpo recitante che si moltiplica col movimento e racconta di un sé contaminato, reattivo fino allo sfinimento.
Gli oggetti sono ridotti al minimo… Bahamuth vive di atmosfere e non considera gli orpelli che umanizzano la situazione giocattolo, e dirigono la percezione alla facile comprensione.
La scatola, giocattolo di metallo, legno, stoffa verde e aria, determina un vincolo formale e provoca un’urbanizzazione dello spazio composto di piani d’aria, definiti da rette quasi mai parallele.

Il giallo fluorescente delle aste, le dimensioni spropositate, i rapporti di equilibrio distorti, danno all’uomo d’oro, che vive l’ambiente, la possibilità di sfinirsi nell’immobilità e in seguito di estendersi e saltare affiancato dai due ragazzi blu, intesi come elementi dinamici.
I due giovani mettono in moto le possibilità meccaniche della struttura, ruotano le ali leggere e svolazzanti che chiudono la scatola e si mostrano indaffarati intorno al fardello uomo, entrano in scena frantumando la solitudine del protagonista e la staticità della scultura.
La scatola, elemento filiforme dall’equilibrio bizzarro, possiede solo l’illusione della chiusura, è vibrante nello spazio e soprattutto è dipendente alle sollecitazioni dell’umano.
Antonio è partito dall’immobilità di un uomo steso.
La storia dello spettacolo è nel ritmo: i passi, le frasi, I frammenti narrati, sono tenuti assieme dal corpo–parola.

Il susseguirsi delle vicende è una costruzione creata con le regole del montaggio cinematografico; Bahamuth si svolge in uno spazio esterno-interno che logora la percezione del tempo e lo reimposta.
La sequenza drammaturgica è costruita mettendo in relazione i frammenti di storie con i movimenti e con i ritmi sonori della parola recitata in corsa.
La triade parola-corpo-spazio si manifesta in forma biforcuta, a tratti sintetica e metaforica e in altri momenti estremamente rappresentativa.
La successione degli eventi nell’ambiente giocattolo, devia la percezione del reale dall’immagine persuasiva.

Teatro leggero

L’allestimento di Bahamuth è veloce da montare come Pitecus, Io e Fotofinish.
La stoffa e il metallo sono le materie che rispondono meglio alle mie esigenze di leggerezza.
In Bahamuth ho inserito anche elementi di legno per rafforzare la stabilità della scatola.
Questa innovazione mi ha molto divertito ed era necessaria affinché venisse fuori la forma del giocattolo con tutto il suo sapore.
La struttura mangiaspazio e l’allestimento dell’ambiente che accoglie la rappresentazione, sono per me due opportunità scoperte nel 2003 con la nascita di Fotofinish.
Bahamuth mi ha permesso di sviluppare queste intuizioni, ma mentre prima parlavo di estensione lineare ora affronto la capacità frammentaria del singolo elemento scultoreo.

Flavia Mastrella

*Le sculture in tasca sono materia appena accennata composta con il criterio del mare… con ironia parlano un linguaggio codificato nel particolare e stravolto nelle dimensioni.

Come corpo pensavo

In quanto carne pensavo di conoscermi.
E invece mi sorprendo di come, ancora una volta, la mente mandi il corpo a soffrire per poi rintanarsi nella facilità del pensare.
Mi muovo da molto con le membra a sfiancare e quindi dovrei aver compreso l’indole del patimento.
Ma nel caso di Bahamuth ho scoperto che gli organi interni hanno una coscienza viva se sottoposti a un’andatura sussultoria e verticale. Nelle opere precedenti il mio incedere è stato lento nella sua difficile armonia e poi veloce nel pendolare circolare e incessante. Ma ciò che incessa quasi mai decessa e cioè, qualunque carne con le ossa attaccate si abitua se ben addestrata.
E quindi, dopo Fotofinish ero certo che il massimo del movimento fosse stato raggiunto.
Creare un qualcosa di più faticoso era arduo e poco intelligente.
Ma nella scatola le corse laterali me le son proibite dall’inizio. L’allestimento di Flavia Mastrella ha suggerito soluzioni azzardate.
E ho cominciato a fare del mio corpo un assoluto verticale, con salti da fermo e in progressione che danno il ritmo alle interiora.
E ciò lo percepisco mentre mi esibisco.
Sento il cuore affaticarsi e la milza intenerirsi, sento lo stomaco in subbuglio, per nulla offeso da un compito non suo.
Insomma avverto un corpo diverso, sottoposto alla trazione verticale che ne esalta l’allungarsi non della vita ma almeno delle membra tutte.
E mi sorprendo ancora di come, mentre la pelle se ne va a finire, la mente la costringa a spasmi insperati e vigorosi.
E per questo il pensiero è inferiore.

Come urla sentivo

L’ inserimento delle urla come suono costituisce il nuovo orecchio di uno spettacolo fatto per i soli occhi.
Privilegio di chi vede è il non capire ciò che un altro fa. Le parole aiutano la miseria della media comprensione.
Le urla fanno la musica senza le mani. La gola non si suona con le dita a meno che non ci si voglia soffocare. E nessun urlo può essere raggiunto dalle mani, tirato fuori e mostrato a chi ci guarda.
Insomma con le urla ci si accorcia il patibolo. Ma questo sembra un atteggiamento pessimista di chi non ama la vita a sufficienza. E invece no, io amo fare quello che non si può comprendere.
In questa opera ultima le urla unificano le parole intere: le urla sono fatte solo di vocali allungate che cingono la preda del concetto e la mandano a morire nella testa di chi ignaro si attarda a capire.
Io sono il mio tamburo e mi suono al ritmo mio.

Antonio Rezza